Il caso della carenza di generici oncologici negli Stati Uniti ha messo in luce la reale sostenibilità della scarsa remunerazione dei medicinali più datati. Se si scende sotto la soglia del profitto, in economia di mercato, il produttore passa ad altro e il farmaco, semplicemente, viene a mancare.
Oggi sembra che il problema principale del farmaco sia il prezzo: quello che si paga, quello che si potrebbe pagare (con politiche di sconti e compagnia cantante) e quello che sarebbe giusto pagare. E probabilmente è anche così, ma in un senso un po’ diverso dalla vulgata attuale. Per cominciare, un editoriale del New England Journal of Medicine dello scorso novembre è intervenuto con grande preoccupazione sulla carenza di alcuni farmaci oncologici registrata negli Stati Uniti. Un fatto inedito per quel paese, che ha riguardato alcune molecole disponibili come generico, datate ma ancora largamente impiegate per il loro ottimo profilo terapeutico: vincristina, metotressato, leucovorin, citarabine, doxorubicina, bleomicina e paclitaxel.Gli autori si soffermano sulle difficoltà che questo ha causato, basterà dire che secondo un’indagine dell’Institute for Safe Medication Practices, il 25% dei medici intervistati ha riportato errori gravi nella terapia a causa delle difficoltà insite nel passare da un farmaco a un altro o da una forma farmaceutica all’altra. E il prezzo che c’entra? C’entra perché il sostituto più logico per il paclitaxel generico si chiama Abraxane (sempre paclitaxel, ma legato a una proteina), ha la stessa efficacia ma costa 19 volte di più. Inutile dire che Abraxane non ha avuto per ora problemi di riduzione delle forniture.
Non è il solo esempio riportato dal New England: lo stesso discorso vale per il leucovorin, sostanza che dal 1952 è stata prodotta negli Stati Uniti da numerose aziende; quando nel 2008 è apparso il levoleucovorin (il levo-isomero), che non è più efficace ma costa 58 volte di più, la produzione del farmaco più vecchio è declinata e nel giro di otto mesi sono cominciate le carenze.
Certo potrebbe non trattarsi soltanto di questo: la FDA ha attribuito la responsabilità degli episodi di penuria a problemi di qualità per il 43%, a scarsità della materia prima per il 10% e a scelte economiche aziendali solo per l’8%. Consolatorio, ma i problemi di qualità a che cosa risalgono? E’ possibile che non ci fosse una pluralità di case pronte a colmare il vuoto lasciato dai lotti difettosi? Quando, come accade sempre più spesso, è rimasta una sola azienda a produrre una certa molecola vuol dire che non è un “business” molto appetibile e che evidentemente il prezzo è troppo basso, come ha sintetizzato l’Harvard Review of Law and Policy. Peraltro, per i medici statunitensi la stima dell’FDA andrebbe rovesciata: solo un caso di carenza su dieci avrebbe origine da incidenti di produzione (come ha riportato il New York Times).
La ricetta proposta, tra altre, è relativamente semplice: alzare il prezzo dei generici e abbassare quello delle specialità. Può non piacere, ma se si accettano le regole di mercato si deve tenere presente anche la possibilità di ottenere un profitto. Altrimenti si deve passare alla produzione statale dei farmaci a basso costo ma indispensabili, oppure se ne rende obbligatoria la produzione da parte di chi accede a questo mercato con i prodotti ad alto costo. Certo in questo caso non è più economia di mercato (cosa che può anche non dispiacere). Oppure ancora si ammette finalmente che le leggi di mercato classiche risultano solo parzialmente applicabili alla sanità (come del resto sosteneva uno dei padri dell’economia sanitaria, Kenneth Arrow).
Il caso dei farmaci oncologici, comunque, non è isolato. Basti pensare alla scarsità di eparina, e alle gravi contraffazioni con il condroitin solfato supersolfato, di quale anno fa. Un problema di qualità della produzione, certamente, ma originato dalla delocalizzazione della produzione, a sua volta dovuta al basso prezzo delle versioni generiche del farmaco. O anche il caso molto recente della benzilpenicillina benzatinica, altro medicinale con un solo produttore nazionale, pagata due euro dal SSN quando era in fascia A e 24 dal cittadino quando è passata in fascia C. Sono troppi 24 euro o sono troppo pochi 2 euro?
Determinare il prezzo di un medicinale è cosa difficilissima, tanto che di schemi se ne sono avuti tantissimi: da quello del Cip farmaci dei tempi di Duilio Poggiolini, che consentì utili da mille e una notte anche a molecole di discutibile utilità, a quello che la Gran Bretagna ha appena dismesso, che contrattava l’utile complessivo dell’azienda produttrice ma non il prezzo del singolo medicinale. Il vero pericolo, però, è che insistere sulla continua discesa dei prezzi potrebbe semplicemente portare alla scomparsa di certi prodotti. Il meccanismo sarebbe simile a quello che ricordano solo gli ultracinquantenni: un tempo, nel paniere dei prodotti usato per misurare l’inflazione erano comprese anche le famigerate sigarette Nazionali semplici, che miracolosamente costavano sempre pochissimo. Peccato che dal tabaccaio non ci fossero praticamente mai.