La perfetta simbiosi che caratterizza il rapporto tra politica, oramai multipartisan, e il governo tecnico, presieduto da Mario Monti, sta determinando prodotti legislativi non di poco conto, altrimenti interdetti ad un Esecutivo qualsiasi, che fosse espressione di una delle solite maggioranze. In forza di una tale prerogativa – che consente di legiferare, sia d’urgenza che in via ordinaria, senza le abituali strumentali resistenze politiche – il Paese dovrebbe ben conseguire regole finalizzate a riformarlo nel modo in cui l’Unione Europea pretende e in quello che la collettività nazionale esige, dopo tantissimi anni di oscurantismo normativo, fatto di provvedimenti ad elastico, così denominati perché adottati da un Governo e, frequentemente, cancellati e/o mitigati da quello
successivo, e di tante leggi ad personam.
Tra i testi legislativi promossi e definiti dal Governo in carica, assume rilievo il decreto legge n. 1 del 24 gennaio 2012, meglio noto come il provvedimento che realizza le liberalizzazioni, in via di conversione (voto definitivo previsto per giovedì 22 p.v.) con sostanziali modifiche rispetto a quanto sancito nell’originaria formulazione d’urgenza. Con tale provvedimento si è, di fatto, dato inizio – tra l’altro – ad una sorta di mini-rivoluzione nel sistema dell’assistenza farmaceutica. I suoi contenuti mettono in risalto – per effetto della dichiarata volontà della politica dominante che ha accompagnato tutto l’iter parlamentare – un diverso approccio del legislatore al sistema delle farmacie, pubbliche e private. Ciò nel senso di rivedere il loro essere protagoniste dell’erogazione dello specifico livello di assistenza, ma soprattutto nell’introdurre un rinnovato concepimento dell’esercizio farmaceutico nell’ambito del servizio pubblico posto alla tutela della salute, sì da sottrargli l’attuale peculiarità di esclusivista della somministrazione dei medicinali non in regime di convenzionamento, fatta eccezione per quelli rigidamente sottoposti a prescrizione. Insomma, il provvedimento adottato sottintende una ratio ispirata alla liberalizzazione, stricto sensu, delle farmacie, tanto da mettere in crisi il loro vigente assetto strutturale e organizzativo, fondato su una efficiente filiera assistenziale, esercente l’attività di distribuzione al pubblico dei farmaci, sia per conto del Servizio sanitario nazionale che in vendita cosiddetta libera. Una rete, quella consolidatasi a partire dalla fine degli anni sessanta, regolata in regime concessorio, in quanto tale diretta espressione della titolarità del relativo servizio riconosciuta, da sempre, in capo allo Stato (oggi alle regioni). Un ruolo che l’Autorità pubblica esercita – dignitosamente e ovunque – attraverso le farmacie comunali e quelle private, entrambe concessionarie dello specifico servizio pubblico. Una particolarità giuridica che impone, concretamente, la presenza di almeno una farmacia per ogni comune, a garanzia della certezza assistenziale reale, specie in quelle piccolissime realtà municipali, quasi sempre segnatamente montane, per questo motivo sovvenzionate con apposite indennità di disagiata residenza, da dovere rivalorizzare, sì da adeguarle ai sacrifici sopportati dai professionisti preposti alla loro gestione.
A fronte di tutto questo, è dato rinvenire un progetto politico che viene da lontano (2006), distintosi molto di più per essere contro l’attuale assetto giuridico-normativo che a favore di un altro che funzioni meglio nel rendere esigibili i relativi livelli essenziali di assistenza (Lea) alla collettività nazionale, a prescindere dalla sua distribuzione sul territorio. Un disegno della politica volto a liberalizzare, comunque, le farmacie allo scopo (dicunt) di realizzare una maggiore convenienza per gli utenti/consumatori di farmaci e, nello stesso tempo, di creare una maggiore occasione di lavoro per i giovani farmacisti. Una aspettativa, questa, che registrerà di qui a poco il suo fallimento, atteso che il progetto sul quale essa si poggia non conseguirà, verosimilmente, né l’uno né l’altro
obiettivo, ma solo quello di consentire l’allargamento della distribuzione dei farmaci al minuto alle parafarmacie ma, soprattutto, alla grande distribuzione organizzata. Quest’ultima più interessata – com’è ovvio che sia – a trasformare esclusivamente una tale sopravvenuta “abilitazione” in una grande opportunità commerciale piuttosto che a mantenere elevata la qualità del servizio a tutt’oggi garantito dalla farmacia tradizionale.
Il contenuto del provvedimento, che sarà reso definitivo dal Parlamento nel corso della settimana, è estremamente variegato, dimostrativo della volontà della politica di accontentare più destinatari possibili, ma certamente non migliorativo dell’offerta salutare sul piano della qualità.
A poco gioveranno, infatti, le modifiche introdotte e dei “rimedi” volti ad assicurare l’accelerazione delle attività concorsuali, fino ad oggi rallentate da una burocrazia territoriale non propriamente collaborativa e dalle resistente categoriali, certamente da eliminare. Anche le “agevolazioni” di punteggio, insediate in favore delle tipologie professionali esercenti le attività diverse dalla farmacia tradizionale, appaiono, francamente, dei ripieghi eccessivamente premiali e indebitamenti premianti, tanto da essere sindacabili sotto il profilo della compatibilità con alcuni precetti costituzionali.
Quanto al “rafforzamento” del sistema delle farmacie, la neodisciplina viene fatta passare come un cambiamento in melius del relativo servizio, quasi una panacea per i giovani farmacisti, salvo poi, nella sostanza, ad incidere poco in tal senso. In definitiva, il provvedimento suscita, nel suo complesso, non poche perplessità, perché non realizza quella riforma strutturale che, invece, il settore avrebbe meritato.
Oltre a questo, pare non tenere affatto conto della revisione della Costituzione perfezionatasi nel 2001. Più precisamente, di quanto la stessa dispone in relazione alla legislazione concorrente.
La problematica riguarda le modifiche introdotte agli artt. 1 e 2 della legge 475/68, così come modificata dalla legge 362/91, riferite alla determinazione della pianta organica delle farmacie che ogni comune deve possedere.
In proposito, sarebbe stato più utile rivedere l’intera impalcatura del servizio farmaceutico, anche e soprattutto in considerazione delle scelte legislative generali intervenute in tema di gestione del territorio, rimessa alle regioni e agli enti locali. Al riguardo, è risultato alquanto retrò l’avere individuato nel territorio del singolo comune il fulcro della pianificazione di un così importante livello di assistenza, qual è quella farmaceutica. Ciò assume maggiore rilevanza solo se si tiene conto della logica che ha recentemente introdotto nell’ordinamento l’unione dei comuni per conseguire la ottimizzazione dei servizi pubblici da garantire alla collettività e una migliore gestione della spesa relativa.
Il non avere privilegiato una siffatta opzione ha impedito di risolvere i problemi connessi all’attuale “mini” riforma del servizio farmaceutico, dai cui esiti applicativi decine di farmacie diverranno in soprannumero (che, in quanto tali, potrebbero essere chiuse) e molte sedi libere rimarranno tali, perché nessuno le aprirà, in quanto non economicamente convenienti.
Il problema più importante riguarda, tuttavia, la riformulazione della legge 475/68 nella sua vigente lettera messa in relazione all’art. 117 della Costituzione (comma 3), ove si stabilisce che, in materia sanitaria, lo Stato ha competenza a sancire i principi fondamentali e le regioni a legiferare nel dettaglio, ovverosia a stabilire la concreta organizzazione del servizio. Rinviando ad altra analisi l’approfondimento su cosa sia l’uno e cosa l’altro in materia di tutela della salute, è appena il caso di sottolineare la “tolleranza” fin qui registrata, da parte del sistema autonomistico regionale, dello strumento “quorum nazionale” per l’istituzione delle farmacie, determinato dal legislatore ordinario ante revisione del 2001, rinunciando così all’opportunità di poterlo rideterminare per meglio programmare l’assistenza caratteristica nei rispettivi territori. Dicevo tolleranza, in quanto la predeterminazione di un valore demografico valido su tutto il territorio nazionale – ovverosia lo stabilire rigidamente la densità abitativa necessaria per il rilascio della “autorizzazione” per l’apertura di una farmacia – non è da considerarsi principio fondamentale. Una tale previsione, proprio perché direttamente funzionale a garantire la migliore assistenza sul territorio, andrebbe, infatti, definita dalle regioni, dal momento che le stesse sono state individuate dalla vigente Costituzione quale istituzione pubblica competente a fissare i migliori criteri di funzionamento dei servizi afferenti le prestazioni riguardanti l’esercizio delle materie sottoposte alla legislazione concorrente, tra le quali la tutela della salute. Una tale considerazione avrebbe, tutt’al più, consigliato al legislatore statale di definire, quale principio fondamentale, una forbice di abitanti entro la quale le regioni potessero legiferare tenendo
conto delle caratteristiche del loro territorio ovvero di fissare un quorum di massima (rectius, di regola), salva diversa determinazione da effettuarsi a cura delle regioni sulla base dei reali bisogni salutari riferibili alle loro realtà territoriali. Magari anche introducendo, in linea con il criterio generale fissato nell’ordinamento, la possibilità di ricorrere alla pianta organica multi comunale, quale strumento da redigersi a discrezione delle amministrazioni locali interessate, sempre di più propense a consorziare i loro servizi, sì da renderli più efficienti ed economicamente compatibili con le risorse a loro disposizione. Una soluzione, questa, che avrebbe impedito le disparità e le disfunzioni che la nuova disciplina determinerà, invece, a nocumento dell’assistenza farmaceutica.
Invero, saranno molti i comuni a dovere rivedere le loro attuali piante organiche, nel senso di ridurre le sedi esistenti, e tanti altri a non sapere come fare per garantire l’assistenza ai loro cittadini, con farmacie che non apriranno mai e farmacie sempre più deboli sul piano della autosufficienza economica.
Nella condivisione dell’odierna eccezione di incostituzionalità, saranno numerose le regioni che si sentiranno lese nella prerogativa legislativa che la Carta attribuisce loro. In quanto tali, saranno verosimilmente in tante a proporre impugnativa avanti alla Consulta.
Un handicap legislativo che poteva tranquillamente essere risolto in armonia con l’attuale dettato costituzionale. Sarebbe stato sufficiente, infatti, rimettere le scelte alle regioni. Le stesse avrebbero così legiferato e programmato in stretta relazione ai bisogni espressi nel loro territorio, da soddisfare nella corretta applicazione del principio della differenziazione, introducendo importanti novità in tema di strumenti pianificatori multi comunali.
Si sarebbero così garantiti conformità alla Costituzione e un servizio farmaceutico sufficientemente adeguato.
Prof. Avv. Ettore Jorio
Univesità di Calabria
Via Astrid.eu