La scrivente Federfarma, Federazione Nazionale Unitaria dei Farmacisti Titolari di Farmacia Italiani, ha appreso che l’Ufficio legislativo del Ministero della Salute ha risposto alle richieste di chiarimenti in ordine all’interpretazione dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 (come modificato, in sede di conversione, dal Senato della Repubblica), inoltrate dal Gruppo interregionale nel corso di una “riunione a livello tecnico” del 15 marzo u.s., prospettando una lettura di tale disposizione errata, illegittima e tale da compromettere gravemente gli interessi della categoria dei farmacisti titolari.
Occorre chiarire, in via del tutto preliminare, che l’Ufficio legislativo del Ministero non ha alcuna competenza a rendere pareri circa la corretta interpretazione di un decreto legge, la cui applicazione spetta essenzialmente alle Amministrazioni regionali. Eventuali prese di posizione ministeriali, comunque, non possono produrre alcun effetto giuridicamente vincolante. Va sottolineato, in particolare, che il documento in esame, proveniente dal Ministero della Salute, pretende di fornire un’interpretazione del testo come modificato e approvato in sede parlamentare. Esso non reca pertanto (ed ovviamente) l’interpretazione autentica delle disposizioni in esame, che potrebbe essere fornita soltanto da un eventuale, successivo, atto di rango legislativo.
Ai chiarimenti in esame potrebbe dunque riconoscersi, a tutto concedere, la natura e il valore della cosiddetta interpretazione ministeriale, che tuttavia (come è stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, ad esempio, in merito all’interpretazione di norme in materia tributaria) “non è vincolante per il giudice, né costituisce fonte di diritto, in quanto non è manifestazione di attività normativa, bensì portato di atti unilaterali interni della pubblica amministrazione destinati solo ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività dei suoi organi”, di talché, “qualora il contribuente giustifichi la propria condotta sulla base di una interpretazione fornita dall’amministrazione in una circolare, ciò non può incidere sul rapporto tributario ed il suo svolgimento così come regolato dalle disposizioni di legge” (così, Cass. civ., Sez. V, Sent. 12 ottobre 2007, n. 21461; per l’affermazione che “gli atti ministeriali medesimi, quindi, possono dettare agli uffici subordinati criteri di comportamento nella concreta applicazione di norme di legge, ma non possono imporre ai contribuenti nessun adempimento non previsto dalla legge né, soprattutto, attribuire all’inadempimento del contribuente alle prescrizioni di una «risoluzione» un effetto non previsto da una norma di legge”, v. Cass. civ., Sez. V, Sent. 6 agosto 2008, n. 21154; ma v. anche Cass. civ., Sez. I, Sent. 17 novembre 1995, n. 11931).
In ogni caso, si ribadisce, nessun vincolo può derivare alle Amministrazioni regionali dall’interpretazione ministeriale, in quanto proveniente da un soggetto che, salvi aspetti relativamente secondari, non ha competenza quanto all’applicazione delle disposizioni interpretate.
La corretta applicazione delle norme di cui si discute andrà dunque ricostruita innanzitutto alla luce del loro tenore letterale e del loro inquadramento sistematico, tenendo presente che anche la stessa originaria intenzione del legislatore (che, è bene ripetere, non può certo essere manifestata “autenticamente” da un Ministero) recede a fronte dell’oggettivo significato della legge.
Fermo restando quanto precede, l’interpretazione ministeriale, nel caso che ne occupa, risulta per diversi aspetti manifestamente errata, irragionevole e (quindi) illegittima, sicché non può essere condivisa.
Nell’imminenza della prevista, definitiva, approvazione del disegno di legge di conversione, si segnalano in particolare i seguenti profili problematici.
Irragionevole ed errata dal punto di vista sistematico, innanzitutto, appare l’interpretazione delle disposizioni volte ad innovare la disciplina della definizione della Pianta organica delle farmacie.
Secondo il Ministero, le modifiche all’art. 2 della legge n. 475 del 1968, introdotte con l’art. 11, comma 1, in esame, risponderebbero all’intenzione di eliminare l’istituto della pianta organica delle farmacie e con esso i suoi effetti e le procedure per la sua definizione. Il parametro della popolazione resterebbe operante, secondo il Ministero, ai soli fini della determinazione del numero delle farmacie da aprire in ciascun Comune; spetterebbe dunque all’Amministrazione comunale indicare le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, senza più necessità di delimitare il territorio di pertinenza di ciascun esercizio. In tal senso, la delimitazione delle “zone” potrebbe avvenire anche in forma generica (ad esempio attraverso l’indicazione di una determinata via e delle strade adiacenti) e non incontrerebbe limiti nella preesistente perimetrazione delle sedi già aperte.
Il Ministero assume, in sostanza, che, data tale pretesa ratio unitaria, sarebbero abrogate implicitamente tutte le previgenti disposizioni con essa incompatibili. La formulazione delle nuove disposizioni, tuttavia, è con ogni evidenza troppo sintetica per giustificare tale pretesa abrogazione implicita. Per di più, pur dopo le modifiche introdotte con l’art. 11, comma 1, in esame, le residue disposizioni dell’art. 2 della l. n. 475 del 1968 esibiscono tuttora una chiara e coerente ratio. Anche nel testo precedente le modifiche, infatti, la norma faceva testuale riferimento alla “zona” di competenza di ciascuna farmacia. Allo stesso modo, sia il testo vigente che quello in via di approvazione fanno riferimento alla medesima nozione di “sede farmaceutica”, che conserva dunque il significato che ha sempre avuto nel sistema. L’art. 2, comma 4, della l. n. 475 del 1968, nel testo novellato, infatti, tuttora impiega la nozione di “sede farmaceutica”, intesa come l’ambito territoriale all’interno del quale può avvenire l’eventuale trasferimento della farmacia e in tal senso, naturalmente, postula la precisa individuazione dei relativi confini. La formulazione della novella, dunque, non esibisce elementi di completa rottura con la precedente formulazione dell’art. 2 della l. n. 475 del 1968 (rispetto alla quale, anzi, vi è una evidente continuità lessicale e semantica). Resta pertanto confermata la necessità di identificare, per ciascuna farmacia, il perimetro della relativa sede. Quel che è senza dubbio cambiato, certo, è il procedimento con il quale si perviene a tale identificazione, che ora è definito – in forme più semplici rispetto al passato – dal novellato art. 2 della l. n. 475 del 1968. Ma non per questo è venuta meno la nozione di “sede” della farmacia.
Pare di capire, peraltro, che il Ministero ritenga che la deroga alla necessità di perimetrazione della sede riguarderebbe quanto meno le farmacie di nuova istituzione. Tali farmacie potrebbero dunque essere istituite previa generica indicazione della “zona” di pertinenza, mentre non vi sarebbe necessità di rivedere i confini delle sedi già esistenti. Tale interpretazione non può essere condivisa, poiché introdurrebbe un doppio regime di difficile, se non impossibile coordinamento. Il vigente
sistema della pianta organica, invero, presuppone la suddivisione dell’intero territorio comunale tra le sedi esistenti, sicché le farmacie di nuova istituzione finirebbero per ridurre il bacino di utenza delle esistenti sedi limitrofe, alterando gli equilibri individuati nell’istruttoria che ha portato alla loro delimitazione, senza che sia fissato alcun criterio per ripristinare la pari redditività potenziale dei vari esercizi. Va inoltre considerato che non è oggetto di abrogazione l’art. 5 della legge n. 362 del 1991, il quale tuttora stabilisce che, “in sede di revisione della pianta organica delle farmacie”, le Regioni debbano provvedere “alla nuova determinazione delle circoscrizioni delle sedi farmaceutiche” (così esprimendo una necessità oggettiva di equo trattamento dei farmacisti, che non viene meno con l’abrogazione delle norme sul procedimento di adozione della pianta organica). Né è abrogato l’art. 109 del Testo Unico delle Leggi Sanitarie (TULS), giusta il quale il trasferimento delle farmacie istituite in base al precedente art. 104 può essere autorizzato “all’interno dei confini della sede”. Non si vede, dunque, come sarebbe possibile introdurre nuove farmacie con la rispettiva “zona” senza rideterminare le circoscrizioni delle sedi già esistenti.
Altrettanto irragionevole appare l’interpretazione ministeriale delle previsioni che consentono ai “titolari di farmacie soprannumerarie” la partecipazione ai concorsi per l’attribuzione delle sedi di nuova istituzione.
Il Ministero muove, ancora, dall’individuazione di una asserita ratio della nuova disciplina (lo sfavore per la partecipazione al concorso da parte degli attuali titolari di farmacia) che non risulta confermata dal tenore letterale delle nuove disposizioni. Se, infatti, avesse effettivamente inteso far riferimento alle sole farmacie “aperte in base al solo criterio della distanza” ai sensi dell’art. 380 del TULS in data anteriore all’entrata in vigore della novella del 1991, che non siano già state riassorbite, il legislatore avrebbe dovuto espressamente precisarlo. Non è però ciò che ha fatto, giacché le nuove disposizioni si riferiscono genericamente all’esistenza di farmacie soprannumerarie. E’ pertanto richiamata ogni possibile ipotesi nella quale sussista, in un determinato Comune, un numero di farmacie superiore a quello attualmente previsto dalla pianta organica, con la conseguenza che tutti i titolari di farmacia dei relativi Comuni sarebbero legittimati a partecipare.
Risulta, infine, che il Ministero ritenga che le disposizioni dell’art. 11, comma 17, del d.l. n. 1 del 2012 (che introduce un limite di età per la direzione delle farmacie) debbano trovare applicazione anche nei confronti dei titolari individuali, i quali, dunque, al superamento del limite di età potrebbero mantenere la titolarità della farmacia, ma dovrebbero delegarne l’esercizio a un direttore responsabile.
Tale interpretazione della pretesa volontà del legislatore non trova tuttavia conferma nei lavori parlamentari. In particolare, il Servizio studi del Senato ha espressamente indicato, nella documentazione di sintesi degli emendamenti da approvare, che la modifica in esame era diretta ad incidere sulle sole società di gestione di cui all’art. 7 della legge n. 362 del 1991. Non si ignora che, dal canto loro, le schede interpretative predisposte dagli Uffici della Camera propendevano per l’ipotesi ampliativa sostenuta dal Ministero, ma la semplice esistenza di tale contrasto conferma che la volontà parlamentare può essere legittimamente ricostruita tanto nell’uno, che nell’altro senso. Deve tuttavia essere preferita l’interpretazione restrittiva, che è maggiormente in armonia con il dato letterale e sistematico. E’ invero nel solo caso delle farmacie gestite in forma societaria che la legge ha stabilito, sinora, l’obbligo di procedere alla nomina di un direttore responsabile. Tale previsione risponde con ogni evidenza alla necessità di ricondurre anche le gestioni societarie alla logica della diretta responsabilità del farmacista per la dispensazione del farmaco, mentre l’interpretazione ministeriale funzionerebbe in senso opposto, introducendo un filtro tra il farmacista titolare e gli utenti.
Pur ammettendo che la norma in esame non prevede alcuna sanzione, il Ministero ritiene poi che l’autorità sanitaria competente dovrebbe diffidare i titolari ultrasessantacinquenni (e, pare di
capire, le società di gestione con soli soci ultrasessantacinquenni) a nominare, entro un termine che tuttavia non viene precisato e che dovrebbe essere identificato dalle Amministrazioni in base a non si sa quali criteri, un direttore che rispetti i limiti di età, disponendo, in caso di inottemperanza, l’avvio di procedimenti disciplinari e la chiusura delle farmacie, in quanto non più rispondenti ai requisiti di legge.
Tale interpretazione è, anzitutto, manifestamente illegittima. Essa, infatti, trascura completamente l’esistenza, nel nostro ordinamento, del principio di legalità, a tenor del quale ogni atto del pubblico potere deve avere il suo chiaro fondamento nella legge. Ora, nella fonte che il Ministero pretende di interpretare non v’è il benché minimo accenno all’ipotesi che l’inosservanza della norma in commento dia luogo ad illecito disciplinare e men che meno all’ipotesi che possa determinare la drastica sanzione della chiusura della farmacia. Né v’è il minimo cenno alla soluzione procedimentale prospettata dal Ministero, che risulta creata ex nihilo. Nessun procedimento amministrativo, tuttavia, e – quel che più conta – nessuna sanzione amministrativa può avere fondamento altro che nella legge.
In realtà, nel nostro ordinamento già esistono previsioni legislative che consentirebbero l’applicazione della nuova disposizione sulla direzione delle farmacie da parte degli ultrasessantacinquenni. Tali previsioni sono state completamente trascurate dal Ministero.
L’art. 15-nonies del d. lgs. n. 502 del 1992 stabilisce, al comma 1, che “Il limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, ivi compresi i responsabili di struttura complessa, è stabilito al compimento del sessantacinquesimo anno di età, ovvero, su istanza dell’interessato, al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo. In ogni caso il limite massimo di permanenza non può superare il settantesimo anno di età e la permanenza in servizio non può dar luogo ad un aumento del numero dei dirigenti. È abrogata la legge 19 febbraio 1991, n. 50, fatto salvo il diritto a rimanere in servizio per coloro i quali hanno già ottenuto il beneficio”.
Il successivo comma 3 stabilisce che “Le disposizioni di cui al precedente comma 1 si applicano anche nei confronti del personale a rapporto convenzionale di cui all’articolo 8. In sede di rinnovo delle relative convenzioni nazionali sono stabiliti tempi e modalità di attuazione”.
Ebbene: come è ben noto, all’art. 8 del d. lgs. n. 502 del 1992, al quale la disposizione sopra citata fa rinvio, si disciplinano i rapporti fra il S.S.N. e le categorie ad esso legate da un rapporto convenzionale. Fra tali categorie vi è quella dei farmacisti, atteso che, ai sensi del comma 2, “Il rapporto con le farmacie pubbliche e private è disciplinato da convenzioni di durata triennale conformi agli accordi collettivi nazionali stipulati a norma dell’art. 4, comma 9, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, con le organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative in campo nazionale”.
L’unica interpretazione possibile, costituzionalmente orientata, dell’art. 11, comma 17, del d.l. n. 1 del 2012, pertanto, è quella che ne postula l’implicito collegamento con l’art. 15-nonies del d. lgs. n. 502 del 1992, dal quale è possibile desumere il procedimento applicativo della novella. E poiché tale procedimento comporta l’intervento della Convenzione, è perfettamente ragionevole che proprio in sede di Convenzione si stabiliscano le conseguenze dell’eventuale inosservanza del nuovo limite di età. Né, stavolta, il principio di legalità delle sanzioni sarebbe violato, perché il decreto legge identifica un obbligo del farmacista che è connesso alle prestazioni di S.S.N., sicché è proprio in sede di concreta delimitazione dei diritti e degli obblighi dei soggetti con tale Servizio convenzionati che le menzionate conseguenze sarebbero ragionevolmente precisabili. E lo sarebbero con quella definizione di “tempi e modalità” che il decreto legge non prevede direttamente e che – invece – sono essenziali per assicurarne la conformità a Costituzione.
Nel restare a disposizione per ogni opportuno ed auspicato confronto e approfondimento al fine di pervenire ad un’interpretazione corretta e condivisa delle disposizioni in via di approvazione, Federfarma
diffida
pertanto le Regioni e le Province Autonome in indirizzo dal dare seguito alcuno alle errate interpretazioni ministeriali sopra descritte e rappresenta che ogni iniziativa in contrasto con la corretta interpretazione delle norme legislative sarà contrastata con tutti gli strumenti di legge a sua disposizione.
IL PRESIDENTE
(Dr.ssa Annarosa RACCA)