Epatite C: ecco la cura che potrebbe eradicarla. Ma le aziende litigano sui profitti

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Una combinazione di farmaci sperimentali usata in un trial di fase II ha cancellato completamente il virus dal sangue di pazienti infetti. Ma il risultato, ottenuto su 29 pazienti su 29 testati, è stato ottenuto da farmaci di due aziende diverse. Che per ora non riescono a trovare un accordo.

Dopo la notizia degli ottimi risultati del boceprivir sul virus dell’epatite C, arrivati appena la scorsa settimana, ci sono ulteriori buone notizie per i malati. Secondo i dati presentati all’International Liver Congress della European Association for the Study of the Liver (EASL) che si è tenuto a Barcellona, una nuova combinazione sperimentale di farmaci si è dimostrata efficace nell’eliminare completamente il virus dal sangue di pazienti infetti dal ceppo più comune nel mondo. Un risultato migliore delle terapie standard, tanto da suscitare speranze nella comunità scientifica. Quella che potrebbe essere una svolta epocale per la cura di questa patologia, che colpisce 180 milioni di persone nel mondo, è però messa a repentaglio da un problema economico: uno dei due farmaci è una molecola sperimentale chiamata GS-7977 di proprietà di Gilead Sciences, l’altro è il daclatasvir di Bristol-Myers Squibb, anch’esso ancora non approvato. Ma tra le due case farmaceutiche non c’è un accordo.
Chi spinge da una parte, chi frena dall’altra,i due colossi dei farmaci proprio non sembrano riuscire a collaborare. “Per parte nostra abbiamo una gran voglia di mettere in piedi questo percorso parallelo con Gilead – ha detto secco Douglas J. Manion, vicepresidente di Bristol-Meyers – ma per ora loro non sembrano avere nessuna intenzione di lavorare con noi”. Dall’altra parte Norbert W. Bischofberger, vicepresidente esecutivo di Gilead ha specificato che la casa farmaceutica non vuole prendere una decisione affrettata: “stiamo aspettando i risultati definitivi di più mesi di ricerche, prima di scegliere la strada da prendere”, ha fatto sapere. “È decisamente troppo presto per lanciarsi ad occhi chiusi in questa collaborazione”.
Lo studio di fase II i cui risultati hanno fatto tanto scalpore è stato condotto su 88 pazienti non pretrattati affetti da virus dell’epatite di genotipo 1, 2 o 3. In particolare nel braccio della ricerca condotto sui 29 pazienti affetti dal ceppo più comune del virus responsabile del 60% delle infezioni, il genotipo 1, è stato sorprendente: quattro settimane dopo la fine del trattamento, in cui per 24 settimane i partecipanti assumevano ognuna delle pillole una volta al giorno, nessuno dei pazienti presentava più il virus nel sangue. La percentuale di successo corrispondente nei bracci di genotipo 2 e 3 si è invece fermata ‘solo’ al 91%. Un risultato straordinario, che per essere confermato ha bisogno di tempo: di solito, infatti, per dichiarare di aver trovato una cura si aspettano dalle 12 alle 24 settimane dal trattamento, in modo che ci sia la sicurezza che non si presentino ricadute.
Ma ecco arrivare il fulcro dell’accesa discussione: prima ancora che si abbiano questi risultati, le due case farmaceutiche hanno già visioni diverse sul futuro. Bristol-Meyers vorrebbe iniziare subito un trial della combinazione di farmaci su un campione più grande, mentre Gilead vorrebbe aspettare per vedere se gli stessi risultati si ottengono con un altro farmaco al posto di daclatasvir: ribavirin, un farmaco generico che è già parte della terapia standard e che costa molto meno di quello della casa farmaceutica rivale. Chiaramente, se la combinazione con questo secondo farmaco dovesse funzionare bene, Gilead avrebbe anche un enorme tornaconto personale, non dovendo dividere gli introiti della commercializzazione con nessuno.

Una discussione, questa, che sta facendo giustamente indignare la comunità accademica.“L’unico motivo di dibattito possibile dovrebbe essere quello su come far arrivare prima possibile le cure ai pazienti, non qual è il modo migliore per far fare profitti agli azionisti”, ha commentato Scott Friedman, primario del reparto di malattie renali alla Mount Sinai School of Medicine di New York, esperto non coinvolto nel trial.
Soprattutto nel caso di una scoperta importante come questa: a differenza delle altre opzioni terapeutiche studiate, queste pillole non prevedono uso di interferone per via iniettiva, dunque potrebbero portare ad una terapia combinata simile a quella usata per trattare l’Hiv, ma che potrebbe addirittura essere capace di eradicare il virus sul lungo termine. La speranza, ora, è quella che se anche le due case farmaceutiche non si mettono d’accordo i due farmaci vengano approvati entrambi, in modo che i medici possano comunque prescriverli combinatamente. Rimettendo le vite dei pazienti al giusto posto, prima dei profitti.

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