Curve d’indifferenza

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Accade a volte, nei momenti più impensati, quando si ha tempo per riflettere, per annoiarsi, che memorie del passato emergano, come boe slegate dalle proprie ancore, nel mare dei ricordi.

Sarà stato a causa di un fortuito incontro con alcuni amici d’università, ma mi è tornata in mente una serata in compagnia di alcuni di loro che, approfittando della scusa di festeggiare il superamento di un esame, avevano colto l’occasione e invitato alcune ragazze a cena, esibendo maldestri tentativi di approccio.

Uno in particolare, profeta della teoria dei grandi numeri, confidando sulle percentuali di riuscita che, seppur basse, aumentavano proporzionalmente al numero di tentativi, era poco selettivo e ci provava sempre e con tutte le donne gli capitassero a tiro!

La speranza, ultima a morire, era di riuscire a sfilare un si.Ebbene, costui (che per ragione di privacy non menzionerò) passò inutilmente tutto il tempo a riempire di attenzioni e garbate cortesie la sua vicina di tavolo, femmina procace ma riluttante e indifferente tanto quanto le ostentate curve.

Al termine uno di noi, studente in matematica, coniò per l’occasione il nomignolo di “curve d’indifferenza”.
Lì per lì non capii la sottile ironia e pensai fosse un appellativo goliardico ad etichettare la studentessa che, conscia di esser carina, “… se la tirava troppo”.
Successivamente mi fu chiaro l’originale significato di quei termini mutuati dalla rappresentazione grafica di un concetto economico.

Le curve di indifferenza, infatti, sono un importante strumento per l’analisi grafica ed analitica del comportamento del consumatore.
Il concetto di “curva di indifferenza” è strettamente collegato con quello di “funzione d’utilità”.

Una “curva d’indifferenza” è la rappresentazione grafica delle combinazioni di beni che forniscono la stessa soddisfazione al loro fruitore.
In pratica si ipotizza che ci sia una relazione in grado di legare le quantità di uno o più beni consumati con il livello di soddisfazione che l’atto stesso di consumo comporta.
Ovvio che tale livello di soddisfazione è strettamente correlabile alla percezione del singolo individuo.
E, nonostante la teoria neoclassica del consumatore lo ritenga insaziabile e pertanto con un livello di soddisfacimento vincolato al desiderio di possesso, quest’ultimo è limitato, anzi imposto, dal reddito a sua disposizione.

Per rendere di più facile comprensione questo concetto con un esempio banale, si potrebbe immaginare che tre serate a teatro e due serate al ristorante forniscano la stessa utilità (soddisfazione) di quattro serate in pizzeria e due al cinema oppure ancora di due serate in pizzeria e quattro al cinema e così via. E, nel caso dell’amico poc’anzi citato, un appuntamento costoso con l’indifferente antipatica belloccia poteva benissimo competere ed essere sostituito con più allegre ed economiche uscite assieme ad amici e amiche senza altre pretese.

Non vi ricorda, quanto appena espresso, la nota pubblicità di un detersivo in cui l’imbonitore tentava di convincere la casalinga a sostituire il famoso prodotto di marca con due fustini di qualità sconosciuta?

Rapportando i concetti appena enunciati all’attuale mercato farmaceutico, non pare anche a voi che gli esperti di marketing abbiano fatto un grossolano errore di valutazione nel reputare il sistema farmacia avulso dall’attore principale: il farmacista?

O meglio, la relazione farmaco/farmacia/farmacista è così facile da dissolvere nella percezione dell’utente da fargli credere che un “fustino” preconfezionato, con un nome mutuato e anticipato dall’apposizione del prefisso “para-”, possa sostituire l’originale, “Farmacia”?

Evidentemente, visti gli scarsi risultati ottenuti con le liberalizzazioni di Bersani prima e il dilettantismo legislativo dell’attuale governo dopo, la cosa sarà balzata agli occhi di qualcuno più smaliziato.
Egli, accortosi dei pressapochisti che l’hanno preceduto, ha pensato bene di mirare al fulcro del sistema e ha individuato nel farmacista il bersaglio.

Inizia quindi a colpirlo mediaticamente, per poi togliergli la direzione a sessantacinque anni e la possibilità generazionale di trasmettere l’esperienza pluriennale ai propri figli. Cosa invece prassi per ogni attività, professionale e non, e garantita e tutelata a chi è vicino negli affetti.

E tutto ciò con lo scopo di impadronirsi del lucroso mercato del farmaco. Altre motivazioni non ne esistono o sono pure bugie.

Ma nonostante gli attacchi ricevuti “… le farmacie raccolgono una vera ovazione di consensi: voti positivi dal 94% della popolazione e dall’89% degli opinion leader …” in un’indagine condotta da ISPO, l’istituto di ricerca fondato dal Prof. Mannheimer.
A questo punto mi viene da sorridere nel pensare a quanti esercizi di vicinato e corner dei supermercati ci vogliano per sostituire una farmacia nel livello di soddisfazione del cittadino.

Soprattutto se all’indagine conoscitiva appena citata ne aggiungiamo un’altra elaborata dalla Gfk-Eurisko nel periodo settembre/dicembre 2011.

In essa viene evidenziato come, nonostante la crisi economica incombente e il pessimismo diffuso si riverberino sulle scelte dei consumatori spingendoli ad acquistare di meno e a cercare il prezzo più basso e fare scelte più selettive e prudenti, il settore salutistico mantenga stabili i livelli di consumi e si caratterizzi con la tendenza a preferire sempre “il meglio per se” e non quel che costa meno.

La nota dolente al termine di questo discorso è nel rilevare come, puntualmente, il nostro sindacato (Federfarma) non usi con appropriatezza questo valore della farmacia per pretendere il giusto riconoscimento politico.

Dopo aver commissionato indagini di mercato e pubblicizzato alla categoria “quanto siamo bravi e apprezzati” dai cittadini, ripone i risultati in un cassetto e tira a campare!

In pratica sopravvive per auto-referenziamento, non di meriti riconosciuti.

Dr. Raffaele Siniscalchi
Consigliere M.S.F.I.  (Movimento Spontaneo farmacisti Italiani)

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