Mobbing in farmacia di Chiaia (Napoli) Cassazione: «Risarcire la dottoressa»

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La Cassazione amplia la tutela dei lavoratori contro le azioni vessatorie e discriminatorie commesse dal capo e dagli altri colleghi stabilendo che la tutela risarcitoria, per la vittima, scatta anche quando non si è in presenza di mobbing classico. Per mobbing classico si intende quello portato avanti continuativamente. La Cassazione ritiene essere mobbing anche solo i comportamenti emarginanti realizzati a singhiozzo che non sono meno lesivi della dignità e della salute della parte lesa.

Con questa decisione, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una farmacista napoletana spinta al prepensionamento dall’ostile clima lavorativo e precipitata in una grave depressione culminata in un tentativo di suicidio. La donna, a quanto emerge dal verdetto degli ermellini, non si era ben inserita nella gestione della farmacia, zona Chiaia, e non sapeva usare il sistema informatico.

Tutti questi fattori, oltre al fatto di essere la più anziana, l’avevano messa nel mirino del titolare della farmacia e dei suoi collaboratori. Sia in primo che in secondo grado, i giudici di merito di Napoli avevano respinto la richiesta di risarcimento del danno esistenziale e di quello per l’anticipato prepensionamento avanzato dalla farmacista nei confronti del titolare, chiamato in causa anche per le azioni scorrette poste in essere dai suoi dipendenti.Ad avviso della Corte di appello partenopea, gli episodi riferiti dalla ricorrente, «alcuni dei quali confermati dall’istruttoria svolta», non erano idonei «ad essere unificati da una precisa strategia persecutoria finalizzata a indurre la lavoratrice alle dimissioni». Per questo il mobbing veniva ritenuto dai giudici napoletani «insussistente», e la depressione e il tentato suicidio dovevano essere considerate solo «una particolare risposta soggettiva» all’innovazione informatica e ai colleghi.

Ma la Suprema Corte – sentenza 18927 – ha avuto molto da obiettare e ha affermato un nuovo principio di diritto. «Se il lavoratore – scrive la Corte – chiede il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore».

Ora la Corte di Appello dovrà rivedere il no al risarcimento.

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