AGENDA MONTI – La via della crescita può essere lastricata di buone intenzioni?

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276237-995x663L’Agenda Monti è più di un programma, e più di una mera manifestazione dell’intento del premier nel proseguire l’attività di governo con altri mezzi: è il documento fondativo di un nuovo progetto politico. Per questo va letta con particolare attenzione e senza confondere il respiro necessariamente ampio che la pervade con un cedimento alla genericità.

L’Agenda Monti è più di un programma, e più di una mera manifestazione dell’intento del premier nel proseguire l’attività di governo con altri mezzi: è il documento fondativo di un nuovo progetto politico. Per questo va letta con particolare attenzione e senza confondere il respiro necessariamente ampio che la pervade con un cedimento alla genericità. Vale dunque la pena chiedersi: l’Agenda Monti disegna un percorso credibile per la crescita del paese?L’Agenda si divide in quattro parti. La prima contiene un’enunciazione di principi, largamente condivisibili, ma di ordine molto generale, e relativi al rapporto con l’Europa. Come è ovvio, Monti esprime un forte afflato europeista che, al di là dei principi, è animato anche da considerazioni di buon senso: non serve «fare i soci poco esigenti al tavolo del negoziato» per poi «provare ad allentare gli obblighi successivamente quando devono essere attuati». L’Italia ha troppo spesso ceduto a questa tentazione e i risultati, non di rado, si sono visti. Tuttavia queste considerazioni, per quanto assennate, se da un lato sottendono l’impegno a cambiare (in meglio) prassi troppo diffuse nel nostro paese, dall’altro si collocano in una dimensione diversa da quella nazionale e rimandano al futuro stesso dell’Unione. Tant’è che il riferimento politico è alle elezioni europee del 2014, non a quelle politiche del 2013. Pertanto, si tratta di una sezione declaratoria ma poco rilevante ai fini di questa analisi che intende focalizzarsi sulle scelte di politica economica del Monti-politico.

Più interessante è, in questa prospettiva, la seconda sezione, intitolata «La strada per la crescita». Essa si divide in una serie di sotto-sezione che qui verranno analizzate singolarmente.

Il punto di partenza della riflessione montiana è il peso del debito e l’ineludibile necessità di risanare le finanze pubbliche. Il tono è un po’ propagandistico (per esempio quando si contrappone il risparmio di lungo termine ottenibile da una riduzione di 100 punti base del tasso di interesse medio sul debito pubblico al calo puntuale dello spread di 250 punti base nell’arco del 2012). Ma la prospettiva di fondo è condivisibile. Come tradurre in pratica il rigore sui conti? Anzitutto, perseguendo in modo strutturale il pareggio di bilancio «di cui al nuovo articolo 81 della nostra Costituzione» (nel quale, ouch!, le parole«pareggio di bilancio» purtroppo non compaiono…). Fair enough: solo che poi iniziano le contorsioni verbali. Perché si auspica di «ridurre lo stock di debito pubblico a un ritmo sostenuto» ma si precisa che «realizzato il pareggio di bilancio e in presenza di un tasso anche modesto di crescita l’obiettivo di riduzione dello stock del debito sarebbe già automaticamente rispettato». Come dire: il debito è abbastanza grande da fare da sé… Peraltro il punto successivo aggiunge che il debito (conformemente agli impegni assunti in sede europea) dovrebbe essere ridotto, a partire dal 2015, di un ventesimo all’anno. Poiché il debito pubblico vale circa 2000 miliardi di euro, un ventesimo corrisponde a 100 miliardi di euro: un «tasso di crescita modesto» è sufficiente a erodere in questa misura lo stock di debito? Evidentemente no, tant’è che il punto successivo suggerisce di «proseguire le operazioni di valorizzazione/vendita del patrimonio pubblico». Il lettore superficiale potrebbe scambiare queste parole per un invito ad attuare una politica di privatizzazioni, ma il lettore attento le interpreta per quello che sono, cioè – con rispetto parlando – una paraculata: si «prosegue» qualcosa che si è iniziato, ma l’Italia non privatizza nulla da eoni. Il governo Monti ha trasferito asset dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, che non è una privatizzazione ma, sempre parlando con rispetto, alchimia contabile.

Il punto successivo riguarda la «riduzione e riequilibrio dei carichi fiscali». E inizia rettificando ulteriormente quando detto sul debito («il debito è posto su un sentiero di riduzione costante a partire dal prossimo anno»: quindi non servono operazioni straordinarie?). Al netto di questo, si chiede la riduzione«non appena possibile» della pressione fiscale «dando la precedenza alla riduzione del carico fiscale su lavoro e impresa», da perseguirsi anche«trasferendo il carico corrispondente su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio». Ora, qui siamo davvero davanti al versetto di Nostradamus: se sui patrimoni va trasferito il carico«corrispondente» alla riduzione del prelievo su lavoro e impresa, allora siamo davanti a un riequilibrio ma non a una riduzione del fisco. Dunque stiamo parlando di tagliare alcune imposte per crearne altre. Inoltre, non mi è chiaro cosa voglia dire aumentare l’imposizione indiretta «sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio»: vogliamo l’Iva maggiorata sugli yacht e la parure di diamanti? Buona fortuna, specie se si tenta di farlo senza«causare fughe di capitali».

Si passa quindi al capitolo sulla spesa pubblica, con un titolo ambiguo:«eliminare gli sprechi, valorizzare gli investimenti produttivi». Chi potrebbe mai essere contrario? Chi sulla faccia della terra potrebbe volere più sprechi e pretendere investimenti improduttivi? Prendiamo comunque per buono l’impegno a «proseguire l’azione di riduzione e riqualificazione della spesa corrente» (anche qui il proseguire non è beneaugurante: transeat). E’ infatti condivisibile l’auspicio a trasformare la spending review in uno strumento ordinario di ricognizione della spesa pubblica. Purtroppo non viene fornito alcun dettaglio su come la spesa debba essere tagliata, quali voci debbano essere aggredite, e con quale obiettivo quantitativo.

Il capitolo successivo – su un tema sacrosanto: introdurre efficienza e trasparenza nella pubblica amministrazione – appare davvero come un tentativo di marketing politico e neppure dei meglio riusciti: «entro i primi 100 giorni di attività del nuovo governo dovrà essere lanciata una consultazione per identificare 100 procedure da eliminare» (non 99 o 101, eh) è, davvero, il niente fritto. Buono invece il riferimento all’esigenza di unfreedom of information act italiano. Purtroppo l’esecutivo non si è distinto nello sforzo di introdurre trasparenza nella PA.

Si parla poi di liberalizzazioni, con l’esortazione a «proseguire» (e te dai!) la strada già imboccata dal governo Monti. Pur con tutte le cautele e le perplessità del caso, bisogna comunque dare atto che su questo fronte qualcosa è stato fatto, come ha evidenziato il nostro Indice delle liberalizzazioni. Sfortunatamente non viene fatto neppure un esempio concreto di misura da prendere o settore su cui intervenire, quindi è impossibile giudicare della serietà di questo proposito.

Sulla politica industriale il documento rivendica una politica di «riduzione degli oneri burocratici» delle imprese la cui efficacia, peraltro, appare un poco sopravvalutata. Comunque questa sezione identifica una serie di obiettivi importanti: ridurre il costo dell’energia (come?), riformare la giustizia civile (come?), «lavorare sulla produttività totale dei fattori e sul costo del lavoro»(come?), ampliare il ruolo della contrattazione salariale decentrata (right!).

Si parla poi di internazionalizzazione. Per sostenere le imprese italiane nel mondo si propone… di rafforzare il lavoro dell’Ice (scusate l’effetto bromuro), di migliorare la logistica (vaste programme) e di eliminare oneri burocratici. Apprezzabile invece la sottolineatura sull’importanza dell’attirare più investimenti esteri (come?).

Molto buono è il capitolo sulla formazione: premiare il merito, riconoscere autonomia agli istituti scolastici, dare peso alle valutazioni di performancequali Invalsi e Indire, valorizzare (con premi e sanzioni anche salariali) i dirigenti.

Sull’agenda digitale, si esprime l’intenzione di «continuare il lavoro avviato»nella digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e nella creazione di un’infrastruttura di accesso di adeguata potenza. Anche qui mancano dettagli sul come.

Si parla quindi di economia verde. Interessante, seppure poco concreta, la parte sui rifiuti. In tema energetico «è necessario continuare sulla strada tracciata» con la Strategia energetica nazionale, che pur tuttavia moltissimistakeholder hanno criticato come dirigista. E si invoca l’efficacia taumaturgica della revisione del Titolo V della Costituzione. Amen.

Sull’agricoltura non so valutare, perché è un settore di cui conosco molto poco, ma so intendere il significato della frase «serve dare una maggiore protezione agli agricoltori dalle crisi». So intenderlo e non mi piace.

In tema di arte le proposte appaiono molto timide e, tutto sommato, in linea con le politiche seguite finora (che si vede dove ci hanno portato). Strettamente correlata all’arte e alla cultura è la spinta verso il miglioramento della nostra offerta turistica, che pare però qui essere vista alla stregua di un gosplan, dove contano solo le decisioni pubbliche: «è necessario rafforzare il coordinamento centrale e incidere sul sistema ricettivo, fieristico, infrastrutturale, formativo, normativo e fiscale». Sarò ingenuo ma credevo che bastasse avere treni migliori, infrastrutture più adeguate, e magari evitare di spennare i turisti con le tasse di soggiorno.

Si conclude qui la parte dell’Agenda Monti dedicata alla crescita e inizia quella sulla «economia sociale di mercato». Va da sé che pure in questo caso la prima affermazione è che «bisogna proseguire sulla strada tracciata». Le direttrici individuate sono del tutto condivisibili: semplificazione normativa, superamento del dualismo del mercato del lavoro, riduzione dei tempi medi della disoccupazione, e decentramento della contrattazione. L’Agenda si dilunga sulla necessità di includere giovani e donne nel mercato del lavoro, offrendo incentivi (anche di natura fiscale) alla loro assunzione. Si tratta, probabilmente, dell’unico strumento possibile per perseguire quell’obiettivo.

Pure sul welfare l’Agenda Monti schiera un programma ambizioso, centrato sulla protezione del lavoratore nei momenti in cui ne ha davvero bisogno e sul suo empowerment, che passi anche attraverso la valorizzazione dell’offerta privata, per esempio, nella sanità. Individuando nella concorrenza lo strumento migliore di allocazione delle risorse. Apprezzabile è infine la scelta di qualificare mobilità e merito come termini chiave dell’offerta politica montiana.

Dopo i temi sociali, l’Agenda Monti si sposta sulle riforme istituzionali, che qui non commento se non per sottolineare l’enfasi sulla trasparenza come strumento per contrastare sia la criminalità, sia la corruzione.

In sintesi, l’Agenda Monti appare come un documento articolato ma«leggero». Tendenzialmente la parte su lavoro e welfare è più convincente di quella sulla crescita. Infatti contiene proposte concrete o, quanto meno, un’indicazione sugli strumenti che si intendono adottare, piuttosto che soffermarsi sui soli obiettivi. E’ abbastanza deludente, però, la forzatura con la quale si vuole trovare, per ciascun obiettivo dichiarato, un antefatto in qualche provvedimento del governo. Ed è proprio il senso della continuità a svuotare di contenuti anche gli impegni a parole più convincenti: perché se manca quel minimo di autocritica sul passato, allora anche la credibilità futura viene messa in discussione. Il governo ha fatto alcune cose buone e molte negative (inclusa la riforma del lavoro che qui viene rivendicata come epocale). La sua esperienza non può essere considerata paradigmatica di una rivoluzione perché quella rivoluzione non c’è stata e, anzi, ha portato spesso a scelte anticrescita, a partire da quelle in campo fiscale. Inoltre stupisce la totale assenza di impegni quantitativi, o persino di ordini di grandezza, nell’ambito della finanza pubblica, che pure dovrebbe essere il terreno di gioco più congeniale a Mario Monti.

Si diceva, in apertura, che l’Agenda Monti intende essere un documento sia programmatico, sia politico. A conti fatti il risultato è raggiunto, ma in modo asimmetrico: non stupisce che tutti i commentatori abbiano colto perfettamente il senso politico dell’operazione, e su di esso si siano soffermati. Sotto il profilo programmatico, infatti, alcune parti dell’Agenda sono scritte, ma molte di più restano da scrivere e non poche andrebbero riscritte.

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