L’avvilente monotonia della vita è permeata da gesti e riti quotidiani, di cui si nutre, e del collaterale senso di insofferenza mitigato con l’inconfessata speranza di poterli perpetuare per sempre. L’abitudinario caffè di metà mattina, col solito amico al solito bar, è uno tra i tanti.
La scusa è il caffè, il motivo è scambiare cinque minuti di pensieri in libertà.
Come si faceva da ragazzini con le figurine. Ognuno esibiva il pezzo pregiato, propinava un doppione, e riceveva in permuta qualcos’altro per terminare l’album.
L’altro giorno, nella breve passeggiata verso il bar, ho soffermato lo sguardo a leggere il nome della prima strada all’incrocio della mia: Via Pietro Micca.
Per uno strano scherzo del destino, pensai, solo una vocale impediva alla brevità del nome di sovrapporsi ed essere confuso con quello dell’oggetto ancor più effimero e causa della morte del militare sabaudo.
Leggere, poi, tutte le successive targhe stradali fu uno spontaneo inconsapevole esercizio. Il cammino terminava con Via Di Vagno, passando, nell’ordine, Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi, Enrico De Nicola, Ciro Menotti e Gaetano Salvemini.
Il titolare dell’ufficio tecnico comunale dell’epoca fu certo ispirato da un robusto criterio patriottico nell’odonomastica. O forse non voleva far torto a nessuno!
Esternai all’amico del caffè questo pensiero.
Entrambi, giungemmo alla conclusione della difficoltà, oggigiorno, di nominare una strada o una piazza a un personaggio politico contemporaneo, per riconosciuti meriti.
Provate solo a immaginare la reazione degli abitanti di una zona nel vedersi mutare l’indirizzo di casa col nome di un attuale deputato o senatore che, tranne l’appellativo di onorevole, non hanno nulla di ciò nei propri comportamenti. Sicuramente sarebbe cosa meno sgradita se lo si potesse fare alla memoria del personaggio, per prematura morte o scomparsa politica!
Nel pomeriggio, al terzo e solitario caffè della giornata, tornai a riflettere sui quei nomi incontrati quotidianamente e a cui non degnavo attenzione, forse per averne già fornita a sufficienza negli anni del liceo.
Sbagliavo.
Nel rileggere la biografia di Einaudi rimasi colpito dall’attualità del personaggio, dal suo spessore culturale. Ma, soprattutto, dalla contemporaneità e universalità delle idee.
Einaudi era un liberalista convinto, non un liberista!
La diatriba intrapresa con colui che rappresentò il suo mentore, Benedetto Croce, fu epica. Infine si arrese, non per convincimento ma per il rispetto dell’altrui pensiero e l’inevitabile confusione che sarebbe susseguita nella politica economica dell’epoca.
Chi si professa liberista dovrebbe confrontarsi con le idee “liberaliste” di Einaudi.
E’ facile far confusione. Un conto è essere liberisti, altro è definirsi liberali!
Oggi tutti, o quasi tutti, si dicono liberali e parlano sempre di liberalismo e liberismo, senza sapere di che si tratta e contraddicendosi nei fatti.
Nel 1948 Einaudi scriveva sul “Corriere della sera” un elogio della “libertà dell’uomo comune” professando la tesi che la libertà politica debba procedere di pari passo con la libertà economica. Anzi essa – la libertà economica – “… è la condizione necessaria della libertà politica.”
“…Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l’esercizio effettivo, pratico, della libertà: all’un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all’altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed ambedue sono fatali alla libertà. … “
I principi, di cui ho sinteticamente dato un accenno, furono ampiamente dibattuti con Benedetto Croce in una discussione cominciata in era fascista e terminata a guerra finita nel 1949. Ognuno restò sulle sue posizioni.
Croce, filosoficamente, riteneva l’uomo libero di pensare e scegliere, sempre e comunque. Anche di fronte a scelte di vita o di morte per se o i suoi affetti (la sottomissione o la morte è pur sempre una scelta, ma non è vita!).
Einaudi, invece, estraneo all’idealismo filosofico, sentiva la scelta obbligata come un’offesa alla dignità dell’uomo, immorale e sottomissione della libertà di arbitrio.
Forse i due avrebbero dovuto meglio definire quelli che ritenevano dovessero essere i confini della “libertà dello spirito” e quali quelli della “libertà dell’individuo”. Tuttavia nel 1928, ne “La Riforma Sociale”, Einaudi accettò la tesi di Croce secondo il quale il liberismo è un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo.
Einaudi etichettava come liberisti “coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro, l’azione libera dell’individuo coinciderebbe sempre con l’interesse collettivo” .
Molti anni dopo, nel 1941, precisò meglio che il liberismo non dovesse essere il “lasciar fare”, ma l’intervento dello Stato che fissa i limiti entro i quali il privato può muoversi, eliminando gli ostacoli (burocratici, n.d.a.) atti a impedire il funzionamento della libera concorrenza. Senza tuttavia consentire che la libertà fornita possa, per quelle forze naturali sprigionatesi da essa, ostacolare lo stesso processo competitivo.
Quindi diversificò il concetto interventista statale (comunista) dal liberista, esso: “… non sta nella “quantità” dell’intervento, bensì nel “tipo” di esso… Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio muoverti”.
Einaudi sapeva benissimo che liberismo e liberalismo non sempre coincidono. Il primo riferentesi a quella dottrina economica caratterizzata dalla valutazione negativa dell’intervento statale nell’economia, il secondo, invece, basato sull’affermazione e la rivendicazione di un nucleo di diritti individuali inalienabili a fondamento di ogni convivenza civile.
Ai primi posti tra i diritti individuali son stati posti, nella nostra Costituzione, il lavoro, il diritto alla salute e quello all’istruzione. E non necessariamente in quest’ordine, avendo tutti pari dignità.
Oggi alcuni economisti provano a stabilire una classifica di priorità nella scala di valori della vita sociale. Eppure lo stesso Croce affermò che “… Chi deve decidere non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l’accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, che questi siano beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana”.
Se, nell’attuale clima politico, coloro che saranno chiamati a legiferare liberalizzeranno i processi produttivi nell’interesse del cittadino, ponendo precisi limiti al “lasciar fare” del mercato, come al contrario vorrebbero i gruppi economici di potere, e slegando i lacci e laccioli burocratici che bloccano lo sviluppo, allora l’Italia potrà pensare di risollevarsi dalla crisi in cui versa.
Se, viceversa, si darà ascolto ai quei profeti che, incensando questo o quell’altro sistema economico, e privi di strumenti economici di paragone, indirizzeranno l’intervento statale a favore di multinazionali e grosse imprese, declassando il valore del lavoro individuale e appiattendo i salari, difficilmente ci sarà un futuro migliore per le prossime generazioni.
0 risposte a “L’avvilente monotonia della vita… di Raffaele Siniscalchi”
Prendi il caffe, rifletti sulla toponomastica della tua città, scrivi riflessioni e pensieri reinterpretando idee altrui a tuo uso e consumo,ma… a lavorare niente eh? Penso che faresti più bella figura.
Saluti
Avrei voluto scrivere un pensiero più completo, fare anche io riferimenti storici, scomodare altra gente morta… Poi scorro la pagina dei commenti e leggo quello di Renato. Perfetto. Niente da aggiungere. E’ perfetto. Renato, chiunque tu sia, ti stimo.
Carissimo collega, lungo la strada che dal mio paese porta ad Acireale, c’è una zona in cui hanno costruito tantissime villette bifamiliari. Sono così tante che praticamente si è creato un nuovo paese con strade e piazzette. Ogni volta che mi capita di passarci, leggo i nomi delle nuove strade, in sequenza: Via Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, Via Giovanni Falcone, Via Paolo Borsellino, Via Antonino Cassarà, Via Don Pino Puglisi, Via Rocco Chinnici. Non sono mai entrata in queste strade e sono sicura che quelle adiacenti potrebbero portare altri nomi, quali Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, gli uomini della scorta di Borsellino, oppure Francesca Morvillo, la moglie di Falcone, anche lei magistrato e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. E ancora Mauro De Mauro, Pietro Scaglione, Boris Giuliano, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Pippo Fava, Pio La Torre, Rocco Di Salvo, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, Cesare Terranova. Carissimo collega, invece di scrivere cose di una banalità disarmante, rifletta sulle cose davvero importanti della vita e confronti la toponomastica di casa sua con quella di casa mia…. occupiamoci delle cose serie. Io lo faccio da sempre e non per tutelare i miei interessi ma quelli della gente onesta e perbene che non ne può più di vivere in un Paese come quello in cui viviamo…
Entrare in polemica con gli esimi dottori che, ogni qual volta leggono miei articoli, rispondono stizziti e in maniera scomposta, è fin troppo facile. Ma darebbe luogo a ulteriori polemiche.
Comunque, visto che la cultura non si compra e né si eredita, nel prossimo futuro “… sarà ormai estinto quel genere di persone che avevano coscienza di una cultura. La gente avrà soltanto delle conoscenze, e non è la stessa cosa. La cultura è esperienza, […]. Un’esperienza continua, costante, come la luce del sole. La conoscenza è solo un accessorio”.
A Renato dico solo di usare la lingua italiana correttamente. La proprietà di linguaggio non è una scelta.
L’odonomastica è cosa diversa dalla toponomastica!
Se poi, oltre a proferir offese, ci mettesse anche la faccia in quel che scrive, risulterebbe più credibile.
Alla dr.ssa Puleo replico che in Italia il diritto di opinione esiste, il reato non più!
Quindi lasci ai lettori decidere cosa sia serio o banale leggere e cosa, invece, no.
L’affermare che avrebbe “… voluto scrivere un pensiero più completo …(!)”, …”fare (anche lei) riferimenti storici, scomodare altra gente morta…” mi crea disagio.
Ma perché ella non dimostra, con un suo testo, le proprie capacità lasciando ad altri il giudizio di merito?
O forse è più facile criticare che costruire?
Non invoco una competizione letteraria né esorto al terrorismo culturale.
Rubare le caramelle a un bambino non è nelle mie corde, e mi rendo conto che l’invidia e il rancore incisi nel “vorrei ma non posso” di chi è stagnante nel suo alveo, con propri pensieri e futili convinzioni, porta a un auto-convincimento di superiorità negata e inferiorità obbligata.
Cordialmente, Dr. Raffaele Siniscalchi.
ci conosciamo dai tempi dell’universita’,come posso contattarti? Condivido molte tue opinioni!
Fornisci la tua mail con i riferimenti all’editore (felice.guerriero@wdaily.eu) e ti contatto io.
Dr. Siniscalchi io sono ripetitiva, ridondante, sovrabbondante, quasi pletorica. Le direi esattamente ciò che le ho detto. Poi sempre con sta storia dell’invidia… per carità, sentimento utile anche quello, ma mi creda, il momento che viviamo occupa le nostre menti in maniera così drammatica che nemmeno all’invidia condicediamo lo spazio che merita… Le volevo far capire, ma non riuscendovi purtroppo, che sto dramma che lei vive magari altrove non è vissuto alla stessa maniera… c’è altro di cui occuparsi, cose più drammatiche, che davvero modificano le nostre vite. Devo dire poi che un uomo che utilizza nei miei confronti il termine “ella” comunque mi colpisce sempre. E’ segno di eleganza verbale. Grazie. Per il resto mi ripeto, sono ridondante, sovrabbondante, quasi pletorica.
Prego!
Forse conoscendoci meglio potremmo godere di reciproca stima.
Identica sensazione.
Sono d’ accordo con l’ analisi peraltro ben scritta.
Ma restanto nell’ ambito del sistema farmacia italiano la critica al liberismo, di per sè giusta, viene spesso usata in modo strumentale solo per cercare di conservare lo status quo.
Un liberalismo senza il riconoscimento del diritto individuale del farmacista alla libera espressione professionale rischierebbe infatti di essere una espressione vuota.
La Costituzione della Repubblica Italiana
Principi fondamentali
Art. 1
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Firmato da :
Enrico De Nicola
Alcide de Gasperi
Umberto Terracini
X Sinisacalchi : scusa il ritardo con il quale ti rispondo ma ero a lavoro, collega (tra colleghi il tu è d’obbligo) giusto per essere chiari, per me una FARMACIA esiste quando c’è una persona LAUREATA in FARMACIA, abilitata a farlo il tutto in una struttura che rispetti i
requisiti, le autorizzazioni e vincoli a cui sono sottoposti tutti gli esercizi commerciali.
Se una persona ha compiuto gli studi e se ha le competenze per svolgere l’attività di farmacista, credo che impedirgli di farlo sia non degno di un paese CIVILE. Purtroppo l’Italia non lo è visto che oramai da decenni, si consente ad aziende private, quali sono le Farmacie, di lavorare in regime di monopolio con autorizzazioni che si tramandano da padre in figlio, mentre a noi PERSONE NORMALI ci viene impedito di svolgere a pieno la professione di FARMACISTA.
Per il resto lascio alla tua monotona vita il compito di guidarti verso la strada della liberalizzazione della professione il tutto solo per evitare che tu possa annoiarti troppo…
Saluti
Auguri di buon lavoro anche a te allora, con la speranza che le tue capacità professionali e imprenditoriali siano superiori a quelle manifeste nello scrivere e del grado di espressione di pensieri compiuti.
A parte il commento finale che puo’ non piacere, per me Enrico scrive e si esprime compiutamente bene.
Quindi credo che anche le sue capacita’ professionali ed imprenditoriali saranno di ugual livello.