Esistono luoghi mentali dove rintanarsi per sfuggire una sgradevole fisicità del posto e luoghi fisici adatti a dare rifugio alla mente.
Ai primi appartengono le fantasie suscitate da un convegno noioso o dalle chiacchiere della suocera, ai secondi Praga.
Per chi l’ha incontrata troppi anni fa, da giovane e si è innamorato dei vicoli bui e sacralmente silenziosi, dei selciati sonori, delle mille statue grondanti dalle facciate dei palazzi, incollate come resina alle cortecce degli alberi e la ritrova oggi, modernamente invasa da serpenti di turisti chiassosi a snodarsi lungo i gomiti che dalla piazza della Torre sfociano sul ponte Carlo e poi in su, verso il Castello, sembra strano, ma l’emozione è la stessa.
La ragione è che Praga è una dimensione dello spirito e trascende quindi l’aspetto materiale. Pur se in superficie truccata da mille negozi e vetrine di tutte le grandi firme della moda, dell’oreficeria o meri status symbol, come Ferrari e Maserati, resta nel suo intimo una città spiritualmente magica, l’unica dove Kafka ha sentito di poter aprire le ali del surrealismo e dare degna cornice ai suoi racconti.
A Praga non si torna per nostalgia o per curiosità come si fa con i vecchi compagni di scuola, si torna per rivivere la stessa emozione del primo amore.
Sarà stato per l’emozione, sarà stato per l’eccesso di ottimo gulash innaffiato da ripetuti boccali di birra celestiale, fatto sta che ero il primo, impaziente cliente all’apertura mattutina della lekarna, farmacia per chi non mastica la lingua del buon Havel.
Ma prima di andare avanti, due parole che sento doverose sulla birra praghese, strettamente pilsner, a temperatura ambiente.
Densa e dalla schiuma spessa come un cappuccino, non gode del corpo delle colleghe tedesche o del timbro aromatico delle britanniche.
Non ne ha bisogno, ti seduce con il colore, la leggerezza sul palato, si insinua nell’anima e al terzo boccale sei suo. Per sempre.
Ma ci eravamo lasciati sulla porta della farmacia, reduce da una lunga, nonché sofferta, notturna permanenza nel bagno dell’albergo.
Alla deliziosa collega in camice bianco espongo la situazione, se il mio colorito verdastro non fosse sufficientemente esplicito.
Sorridendo, mi porge una confezione di Imodium, chiedendomi un onesto corrispettivo in valuta locale.
Pur nella necessità del momento, drogato come sono da anni di libero mercato, chiedo se sul prodotto venga applicata una qualche forma di sconto.
Mi guarda con lo stesso ribrezzo che il suo compatriota Kafka ha riservato a Gregor Samsa, risvegliatosi scarafaggio, poi in un inglese pulito come raramente senti pronunciare a sud di Dover, mi indica il mercato di fronte, chiarendo che se voglio sconti e offerte, quello è il posto adatto alle mie richieste.
Piccato oltre gli spasimi viscerali, insisto che in una città conquistata dalle leggi del commercio, sui farmaci in libera vendita mi aspetto di poter ottenere delle facilitazioni sul prezzo.
Piccata quanto me, ma lei senza spasmi, ribatte che sempre di farmaci si tratta e che non è loro uso mercanteggiare sui rimedi per la salute.
Il tono è quello che lascia intuire che alla terza obiezione è disposta a chiamare la polizia, o peggio, riprendersi la scatoletta colorata rimasta fra di noi.
Afferro il mio passaporto per la tregua intestinale e saluto la collega, ammirando la sua dignità professionale, una fierezza tale che ho l’impressione di sentire nell’aria un brano di una sinfonia del connazionale Dvorak.
Praga, capitale delle illusioni e dell’esoterismo, una città che oggi ha ceduto in pieno alle lusinghe economiche occidentali, fino ad inaugurare di recente la strada delle prostitute in vetrina, però nelle cose serie mantiene una normativa che rispetta il malato e la figura professionale del farmacista ben più della nostra.
Praga magica. Come la Roma, direbbe Francesco Totti.