Nazario Matachione racconta i 69 giorni nel carcere di Poggioreale. «La mia ingiusta detenzione»

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le lacrime 2_Public_Notizie_270_470_3I tornanti dell’amore conducono dalla collina di Posillipo al mare. Giù, in fondo alla strada di tufo, il profumo dei gozzi di legno regala un senso ancora più magico ad un angolo di paradiso di per sè già mozzafiato. E’ la Napoli della finestrella di Marechiaro, dell’incanto di Villa Rosebery, dei misteri della Gaiola. La Napoli che Nazario Matachione può scrutare tra le cicas del terrazzo del suo attico arredato con design minimal made in Italy e colori mediterranei.
Il re delle farmacie decide di raccontare senza filtri i suoi 69 giorni di detenzione. O meglio, «di ingiusta detenzione», precisa. Come del resto hanno riconosciuto il Riesame e la Procura, derubricando l’ipotesi di corruzione da “propria” a “per asservimento”, così come richiesto dall’avvocato Elio D’Aquino. «Cioè una differenza sostanziale tra chi corrompe per cultura, sistematicamente, e chi, invece, chiede un aiutino per accelerare atti dovuti».

Sul tavolo di vetro, sistemato in fondo al salone “open space”, il calice di vino rosso si svuota lentamente e altrettanto lentamente il posacenere di porcellana si riempie di mozziconi. Nazario Matachione è seduto tra il Primitivo di Manduria «Vintage» e un mazzetto di fogli scritti a mano. «Permette se leggo qualche rigo?», chiede. E poi inizia: «Non perderete, dottore, perché un leone non può perdere. Sappiate però che qui ci sentiamo tutti un po’ più soli senza di lei, che di solito quando esce un altro c’è sempre un pizzico di invidia, ma stavolta no. Stavolta l’applauso di addio è venuto dal cuore». Firmato: quelli della stanza 23. «La stanza del dottore», dice Nazario Matachione con la voce rotta dall’emozione asciugandosi le lacrime che gli riempiono gli occhi rossi.
«Sono stato detenuto nel padiglione Firenze e ho conosciuto valori che fuori non avevo mai conosciuto, ai quali non avevo mai dato peso». Ora è un uomo diverso, «ora ci sono 400 lettere che conserverò fino alla morte, che mi hanno ridato la forza e che mi hanno trasformato in un uomo migliore».
Una di quelle lettere che tiene a leggere ha più di una firma e il re delle farmacie le legge con la promessa di omettere i cognomi. «Antonello è dentro per un’inchiesta sulle carte di credito, Antonio è accusato di furti e rapine, Gigi di violenza. Io non li giudico, ma ne testimonio il calore umano e la forza d’animo. Sono uomini che hanno sbagliato, e che vogliono rinascere oltre quelle sbarre, ai quali lo Stato dovrebbe offrire un’altra chance».

Come quel detenuto amico di tante partite a calcio, che ha aiutato a scrivere un paio di lettere indirizzate alla suocera che non vuole accettare la relazione d’amore tra lui e sua figlia. Ora gli scrive: «Se cambierò, cambierò grazie a lei, dottore». Anche Antonio gli sarà riconoscente. E’ un  altro compagno di cella, dentro per traffico internazionale di droga, «anche lui è di Torre Annunziata». Già, anche lui, «come me», dice Nazario Matachione, quasi a voler dimenticare le sue origini di Torre del Greco, che inevitabilmente gli ricordano due ferite profonde. «Una donna che avevo sposato da ragazzino, e che avevo amato davvero, e un amico, con il quale avevo condiviso viaggi e segreti». Persone che, dice senza tentennamenti, riferendosi a Maria Palomba e al suo nuovo compagno, Angelo Della Gatta, «mi hanno tradito, pugnalato e messo alla gogna con un mucchio di falsità che per fortuna in parte si sono già sgonfiate».
La sua gogna sono le due ordinanze di custodia cautelare, i 69 giorni di carcere e un’altra manciata ai domiciliari. Matachione si guarda intorno, getta lo sguardo oltre la veranda, indica il Vesuvio che si staglia su un mare di onde e case e pensa ai suoi dipendenti. «Ora il mio posto è lì, a Torre Annunziata, al fianco di quei ragazzi che non ho voluto abbandonare e ai quali voglio continuare a garantire un futuro». Un futuro all’ombra della “emme” bianca su campo rosso. Un impero con 153 famiglie, 12 farmacie e migliaia di euro di fatturato ogni mese. «Un impero che non è stato scalfito né dall’inchiesta, né dal fango, né dalla concorrenza. Anzi, io sono qui e sono pronto a farlo crescere ancora». Anche per questo ha chiesto di essere ascoltato dal pubblico ministero Woodcock anche se è stato scarcerato, anche se gli era stato sconsigliato dagli avvocati Elio D’Aquino e Domenico Ciruzzi. «Ho insistito io», dice Matachione. «Perché non ho nulla da temere, perché voglio tornare subito alla guida del mio consorzio, per spazzare via ombre e corvi».
Un messaggio. Una sfida. Una promessa. «Perché adesso sono diverso, perché il carcere mi ha cambiato in meglio, perché ci sono queste lettere che dicono che anche Matachione può lasciare il segno nel cuore degli altri», e perché ci sono quei boccoli biondi che sua figlia gli cala sul viso per dargli un bacio prima di uscire di casa.
Lui la guarda con l’orgoglio, le strizza l’occhio, l’abbraccia e la tiene stretta a sè. E’ la primogenita, la bambina generata prima del matrimonio, quando lui e Maria erano due ragazzini pieni di sogni e senza responsabilità. «Quando la vita non era ancora così dura». Sua figlia: una ragazza bella come il tramonto che cala sulla Gaiola, come le luci che accendono il profilo di Napoli all’imbrunire, «come la vita che ho davanti».

Via metropolisweb.it

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