Sono oltre 70mila gli italiani costretti a convivere con la sclerosi multipla, con 2000 nuovi casi ogni anno e un’incidenza tra le donne pari a due volte e mezza quella tra gli uomini. La progressione della malattia comporta un’alterazione della guaina mielinica, che a sua volta compromette la capacità delle fibre nervose di condurre gli impulsi elettrici che regolano le varie funzioni dell’organismo. “Le lesioni della guaina mielinica hanno un’iniziale natura infiammatoria – dice Carlo Pozzilli, Ordinario di Neurologia presso l’Università La Sapienza di Roma – che può evolvere in una fase cronica con perdita di tessuto nervoso e danno irreversibile. Ma si ritiene che il dimetilfumarato sia in grado di attivare un particolare meccanismo di difesa dell’organismo che permette di contrastare l’infiammazione e lo stress ossidativo causato dalla malattia”.
Le conseguenze sono perdita di equilibrio, difficoltà a camminare e a compiere anche i gesti più semplici, come sollevare una tazzina da caffè. Nell’ottantacinque per cento dei casi la sclerosi multipla si presenta nella forma recidivante-remittente, con periodi caratterizzati dalla assenza di sintomi alternati a ricadute, mentre nella forma progressiva (il restante quindici per cento) c’è invece una degenerazione e un peggioramento costante della malattia col passare del tempo.
Da vent’anni il farmaco d’elezione per contrastare la sclerosi multipla, per la quale non è stata ancora scoperta una cura definitiva, è l’interferone, che si somministra tramite iniezioni sottocute.
Proprio perché si usa da molto tempo conosciamo bene la sua efficacia, più che dignitosa, e la sua sicurezza, molto elevata, ma convivere con questa cura aggiunge disagi al calvario che le persone con sclerosi multipla devono sopportare: infatti le iniezioni provocano reazioni sulla pelle e bisogna perciò cambiare frequentemente il luogo dove effettuarle; inoltre l’interferone causa molti effetti collaterali, che vanno dall’influenza a problemi al fegato e alla diminuzione dei globuli rossi e per questo ci si deve sottoporre a ricorrenti esami del sangue.
Le nuove cure in arrivo – Il Prof. Giancarlo Comi, Ordinario di Neurologia dell’Università “Vita-Salute San Raffaele” e Direttore dell’Istituto di Neurologia Sperimentale (INSPE) dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. Membro onorario dell’ECTRIMS, ha recentemente ricevuto il “Charcot Award for MS research” da parte della Multiple Sclerosis International Federation (MSIF) e dal 2014 è anche membro del progetto Progressive MS Alliance (Alleanza per la Sclerosi Multipla Progressiva), non ha usato mezzi termini per definire l’effetto dimostrato da ocrelizumab, il farmaco sviluppato da Roche per il trattamento della sclerosi multipla. L’Osservatorio Malattie Rare l’ha incontrato in occasione del 31esimo Congresso dell’ECTRIMS (European Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis), che si è svolto dal 7 al 10 ottobre a Barcellona con la presenza di oltre 8.000 partecipanti.
“Questo anticorpo umanizzato ha rivelato caratteristiche sorprendenti anche per noi: pensavamo che con la maggiore efficacia rispetto all’interferone ci sarebbe stato un prezzo da pagare sulla sicurezza, ma così non è stato”, spiega Comi. “Ocrelizumab è un farmaco da usare in prima linea e rappresenta un assoluto salto di qualità rispetto all’interferone, con un effetto amplissimo, non solo sugli attacchi ma anche sulla riduzione della disabilità”.
I risultati positivi sono stati ottenuti sia nelle forme recidivanti di sclerosi multipla, con i due studi OPERA, sia nella forma primariamente progressiva, con lo studio ORATORIO. “Questo convalida l’ipotesi che le cellule B siano al centro della biologia di base della malattia. Un farmaco come ocrelizumab ha infatti una grande peculiarità: distrugge in modo selettivo la popolazione dei linfociti B. Questi, da un lato aggrediscono direttamente il tessuto nervoso con un meccanismo anticorpo mediato, dall’altra attivano la popolazione di linfociti T. Ciò comporta una drastica riduzione dell’attività infiammatoria, che risulta pressoché azzerata: un calo del 90% nelle lesioni attive significa quasi la loro scomparsa, perché il confronto è con un farmaco – l’interferone – che già le diminuiva”.
Ne consegue una netta riduzione delle ricadute e una forte riduzione del rischio di accumulare disabilità, e questo si riflette in un miglioramento nella qualità di vita dei malati. “Dato che i linfociti T non vengono distrutti dal farmaco, rimane in gran parte inalterata la risposta contro gli agenti infettivi ai tumori, riducendo i problemi di sicurezza che hanno abitualmente i farmaci con una potente azione immunosoppressiva. Ocrelizumab, inoltre, non ha alcun impatto sulla fertilità”, continua Comi.
E i risultati positivi conseguiti nelle forme primariamente progressive di malattia sono ancora più rilevanti: “Ocrelizumab è il primo farmaco in grado di ridurre significativamente il rischio di progressione della disabilità, e ciò apre una nuova prospettiva per il trattamento delle forme progressive di malattia che affliggono circa la metà dei pazienti con sclerosi multipla, peraltro quelli con maggiori alterazioni della vita quotidiana. Il paziente, e il clinico, hanno ora a disposizione un nuovo strumento che agisce in modo diverso rispetto a quelli utilizzati attualmente e che quindi contribuisce a quello che oggi è l’aspetto fondamentale della cura di questa malattia: la terapia personalizzata”.
L’approccio personalizzato, infatti, consente di individuare per ogni paziente, in ogni momento della sua storia di malattia, quale sia il trattamento più opportuno: un metodo che mira ad ottimizzare il rapporto rischio-benefici e a conseguire, in una proporzione significativa dei pazienti, un completo controllo della malattia.
“Dobbiamo purtroppo ricordare – avvisa il professor Comi – che la sclerosi multipla è una malattia cronica, per cui i trattamenti che intendiamo utilizzare devono avere un profilo che ne consenta un impiego esteso nel tempo. I dati fino ad oggi disponibili, relativi a due anni di terapia, suggeriscono che ocrelizumab possieda queste caratteristiche: il profilo di sicurezza del farmaco, emerso dalle tre sperimentazioni cliniche che hanno coinvolto complessivamente circa 2.400 malati, è apparso infatti molto rassicurante”.
Per avere il farmaco disponibile negli ospedali europei bisognerà aspettare almeno un anno: un periodo che servirà ai ricercatori per proseguire gli studi e accumulare ulteriori evidenze sulla sicurezza a lungo termine.